I finalisti del Premio Rete Critica 2021

Si è concluso lo spoglio dei voti della II fase del Premio Rete Critica. I finalisti della X edizione che si contenderanno il Premio 2021 a Padova il 3 e 4 dicembre sono:

Compagnia del Teatro dell’Argine con il progetto Politico Poetico
Kanterstrasse
Kepler-452
Residenze Digitali

Qui ci sono le votazioni della semifinale

foto: Finale Rete Critica Padova 2019
Pubblicità

L’edizione 9 e 3/4 di Rete Critica (a cura dell’Oca Critica)

Rete Critica 2020: il brindisi di arrivederci

In attesa della decima candelina del Premio Rete Critica, ripercorriamo l’edizione 9 e 3/4, avvenuta interamente in digitale per arginare le restrizioni contro la pandemia.

La redazione di L’Oca Critica ha redatto tre brevi testi, uno per ogni tavolo tematico: “Teatro e politica”, “Teatro in ascolto” e “Danza e immagine”, per una due giorni di approfondimento tematico, in cui si è stato dato spazio alla parola e alla riflessione a partire dalle esperienze degli ospiti segnalati dalla rete, e arricchiti dalla voce degli esperti chiamati a raccontare il proprio punto di vista sulla situazione attuale. 

Gli incontri, realizzati grazie al sostegno e alla collaborazione con il Teatro Stabile del Veneto, sono visibili sulle pagina facebook di Rete Critica ai: link https://www.facebook.com/retecritica/videos/1005627646585251 e https://www.facebook.com/retecritica/videos/196711505400134

TAVOLO 1. Teatro e politica – Tiresia e altri hacker | Venerdì 4 dicembre 2020 16.00 

di Irene Buselli 

Ospite: Giovanni Boccia Artieri Moderatore: Roberta Ferraresi Segnalati dalla Rete: Progetto C.Re.S.Co. | Coordinamento delle Realtà della Scena Contemporanea Giorgina Pi / Bluemotion 

Kepler 452 

Il fatto stesso che l’ospite del tavolo “teatro e politica” sia il professor Boccia Artieri, esperto di comunicazione e media digitali, sottintende già una prima considerazione: nel momento in cui i teatri vengono chiusi, la ricerca di nuovi media per continuare ad andare in scena è di per sé un atto di resistenza e, di conseguenza, un atto politico. A questo postulato si aggiunge, nel corso del tavolo, un corollario solo apparentemente meno intuitivo: la ricerca di nuovi formati può fornire uno sguardo rinnovato su quelli vecchi, e, in particolare, il digitale ha molto da insegnarci sull’analogicissimo binomio teatro-politica. 

Le lezioni che, secondo l’analisi di Boccia Artieri, il teatro può apprendere dal digitale sono riconducibili essenzialmente a due termini del gergo informatico: link e hacker

link a. Collegamento tra un calcolatore e le sue unità periferiche, o, anche, il collegamento tra due o più calcolatori. b. Negli ipertesti e nei siti web, collegamento fra una pagina e un’altra, o fra parti della stessa pagina, realizzato mediante un comando che si attiva posizionando il mouse su una porzione di testo, su un’icona o su un’immagine. (da Vocabolario Treccani

Essere collegati – o, forse ancor meglio, essere connessi, se riusciamo a non perderci nella marea di significati digitali che questo termine ci spalanca davanti – è un valore per il teatro: lo è nella rivendicazione di tutele e diritti di cui la pandemia ha fatto prepotentemente emergere la necessità, lo è nella relazione con il proprio pubblico, che mai come in questo momento ha la possibilità di esistere senza essere mediata da altri, e lo è nella condivisione di contenuti, nel momento in cui, in assenza di palcoscenici, chi li produce diventa responsabile anche della loro circolazione. 

Proprio nella cornice del primo di questi aspetti – ovvero la necessità di un “noi” a comune denominatore delle richieste di riconoscimento di diritti e sostegni per il mondo dello spettacolo dal vivo – si inserisce l’intento di C.Re.S.Co. (Coordinamento delle Realtà della Scena Contemporanea), che ha da sempre individuato nella parcellizzazione delle diverse istanze un punto debole del sistema teatrale contemporaneo. Significativo in questo senso l’estratto del manifesto che Elena Lamberti porta all’attenzione del tavolo: 

“Siamo convinti che è solo dando vita a un percorso plurale, trasparente e coraggioso che possiamo costruire un progetto e una sensibilità che siano insieme poetici e politici, funzionali alla difesa della nostra dignità lavorativa, al recupero di un ruolo riconosciuto nel contesto sociale in cui operiamo, alla crescita complessiva del nostro settore, ma anche necessari per continuare a creare bellezza e pensiero”. (da Manifesto C.Re.S.Co

Non è solo l’idea di comunità a stare al centro del lavoro di C.Re.S.Co., ma anche l’attenzione all’eterogeneità di questa comunità: se nei primi mesi di pandemia la distribuzione cosiddetta “a pioggia” di aiuti e indennità fissati a soggetti diversi tra loro poteva rientrare in una logica emergenziale, col passare dei mesi continuare a “fare parti uguali tra disuguali” è stato e sarà sempre meno efficace, oltre che iniquo. L’intervento di Francesca D’Ippolito si concentra infatti su questo punto, evidenziando l’obiettivo di lavorare a una mappatura che indaghi in profondità anche le differenze tra i lavoratori mappati. 

hacker: Nel gergo dell’informatica, chi, servendosi delle proprie conoscenze nella tecnica di programmazione degli elaboratori elettronici, penetri abusivamente in una rete di calcolatori per utilizzare dati e informazioni in essa contenuti, per lo più allo scopo di aumentare i gradi di libertà di un sistema chiuso e insegnare ad altri come mantenerlo libero ed efficiente. (da Vocabolario Treccani

Anche solo leggendo la definizione è immediatamente chiaro quanto il concetto di “hacker” possa sconfinare facilmente dal significato tecnico. Rimanendo però un passo indietro, prima ancora di concentrarci sull’azione dell’hacker l’attenzione andrebbe posta sulla situazione di partenza: “i gradi di libertà di un sistema chiuso”. Se sulle piattaforme online i gradi di libertà del sistema sono di solito regolati da algoritmi, nella realtà essi corrispondono a tutte quelle logiche, più o meno comunemente accettate, che alterano lo stato di naturalità in modo non sempre evidente. Hackerare questi algoritmi, mettendo in luce pratiche alternative e mostrandone i limiti, ha di per sé un forte valore sia artistico che politico. 

Si può dire che il tentativo di “mettere un dito nell’algoritmo” appartenga, in modo diverso, a entrambi i lavori che la compagnia Kepler-452 ha portato in scena nell’ultimo anno: Lapsus Urbano // Il primo giorno possibile e Consegne. Nel primo, questo tentativo costituisce in realtà una pratica che il teatro e l’arte in generale hanno sempre utilizzato: partire da delle narrazioni diffuse – in questo caso,ad esempio, il cantare le canzoni dal balcone o il rimando a un passato in cui si era comunità – e problematizzarle, metterle in discussione – davvero esisteva una comunità prima? Cosa succede se il teatro sposta lo sguardo dietro l’impalcatura posticcia di queste narrazioni? 

Nel caso di Consegne, invece, l’hacking è molto più marcato e il suo impatto più potente: se i teatri restano chiusi in nome dell’apertura di tutto ciò che garantisce consumi e guadagni, l’attore si traveste da rider e lo spettacolo diventa la consegna stessa, ripresa con delle telecamere e trasmessa in streaming. La denuncia delle distorsioni e delle irrazionalità intrinseche alle norme anti-contagio è insita nel formato, al di là del contenuto dello spettacolo, rendendo il mezzo tutt’altro che un ambiente neutro. 

L’ultima opera segnalata dalla Rete – Tiresias, diretta da Giorgina Pi con Gabriele Portoghese – è apparentemente quella più distante dalle “lezioni di digitale” esposte da Boccia Artieri: il formato dello spettacolo è quello più tradizionale, e il riferimento a uno dei personaggi più classici della mitologia suggerirebbe uno scarto netto rispetto alle tematiche citate fin qui; in effetti, l’intervento di Giorgina Pi e Gabriele Portoghese si concentra su argomenti altri rispetto al loro spettacolo. Eppure, tornando per un attimo alla definizione Treccani, quali altri personaggi nella storia reale o letteraria hanno “aumentato i gradi di libertà di un sistema” quanto Tiresia, talmente al di fuori dell’apparente ordine naturale da avere un corpo che vive più sessualità, più età in una vita? Tiresia è una via d’uscita dal sistema, è il tentativo di superamento delle regole sessuali e l’assalto alle gerarchia del tempo: in questo senso, il più plateale hacker della storia. Ed è per questo che portarlo in scena significa – anche – fare politica. 

Che Tiresia e Anonymous possano dare al teatro le stesse lezioni forse è una boutade, o forse il miracolo di un’idea che resiste al di là del tempo: mettere in discussione l’ordine è un gesto politico. Farlo insieme, attraverso un ripensamento condiviso, può essere teatro. 

TAVOLO 2. Teatro in ascolto – Voci e spettralità​ | Sabato 5 dicembre 2020 18.00 

di Matteo Valentini 

Ospite​: Rodolfo Sacchettini Moderatore​: Viviana Raciti Segnalati dalla Rete​: Frosini/Timpano 

Radio India Campsirago Residenza 

Con ​Sette concerti per Capodanno​, dal 28 dicembre 2020 al 3 gennaio 2021, Radio India è tornata a trasmettere dopo cinque mesi di silenzio, accompagnando i suoi ascoltatori attraverso un passaggio d’anno carico come non mai di rituali apotropaici e di aspettative incerte. All’interno della prima puntata, programmaticamente intitolata “Lettere al futuro”, Riccardo Festa e Matteo Angius hanno regalato un intervento sul tema dello spettro e, in particolare, un breve passaggio sull’essenza dello spettro nell’​Amleto ​di Shakespeare. È l’inizio del primo atto e quattro sentinelle si trovano sugli spalti del castello di Elsinore. Dopo i primi saluti e il cambio della guardia, uno di loro, Orazio, chiede: 

What, has this thing appeared again tonight? 

Dunque, s’è fatta rivedere… quella cosa? (​William Shakespeare, ​Amleto​, Atto I – Scena I​) 

“Quella cosa” è ovviamente lo spettro del padre di Amleto che di lì a poco farà il suo ingresso in scena. O meglio, rifarà. Festa e Angius sottolineano proprio questo carattere ricorsivo dello spettro: la prima volta che noi spettatori lo vediamo, è in realtà la seconda volta che appare. Nel loro tumultuoso e piratesco intervento, Festa e Angius hanno lanciato questo appunto e sono passati oltre, ad altre prerogative di altri spettri, ma io vorrei fermarmi e iniziare da qui la riflessione sul secondo tavolo del convegno Rete Critica 2020, dedicato al teatro “in ascolto”, ossia a quelle compagnie o gruppi che durante l’ultimo anno hanno considerato l’ascolto come pratica teatrale possibile per ovviare all’assenza dal e del palcoscenico. 

“Presenza evanescente di qualcosa che non c’è più”, questa è la concisa ma efficace definizione di spettro suggerita da Festa e Angius. Una presenza che implica e rimanda a un’assenza, che è poi il principio dell’immagine e della rappresentazione in generale. Una presenza che è una traccia e, nel caso del nostro tavolo, una traccia sonora. 

Nella sua introduzione al tavolo, Rodolfo Sacchettini ha ricordato un vecchio radiodramma, ​Gli innamorati dell’impossibile (1952), ambientato a Hiroshima subito dopo lo scoppio della bomba nucleare. I due protagonisti sono le voci di una coppia di innamorati, uniche tracce rimaste dei loro corpi, oltre alle loro ombre (a seguito dell’esplosione, di alcuni corpi rimase effettivamente la traccia “impressa” sull’asfalto o sui muri della città rimasti in piedi). Queste due voci vagano disperate per Hiroshima cercando di capire cosa sia successo, di mettersi in contatto con qualcuno e di riacquistare un corpo. Nel farlo, continuano a parlarsi e, soprattutto, ad ascoltarsi: se smettessero, si perderebbero. Oltre che dall’assenza, dunque, l’immagine spettrale e la traccia sonora sono 

caratterizzate dal desiderio: entrambe ci suggeriscono un corpo impossibile da raggiungere nella sua presenza piena ed è in questa parzialità sottolineata e mai risolta una volta per tutte che trova senso il ruolo e lo spazio dello spettatore. 

Il desiderio di riempire una distanza è stato il primo tema su cui Viviana Raciti, moderatrice del tavolo, ha chiesto ai partecipanti di confrontarsi. 

Con ​Indifferita,​ la compagnia Frosini/Timpano ha cercato innanzitutto di coprire la distanza del pubblico dal teatro in quanto evento: dal 4 marzo al 9 maggio, ogni sera alle 21.00 veniva caricato su YouTube lo spettacolo di una delle cinquanta compagnie aderenti al progetto. Nonostante la loro nitidezza e qualità a volte scarsa – spesso si trattava di video “di lavoro” ad uso delle compagnie, non adatti allo streaming –, i video rientravano in un dispositivo rituale, cadenzato, quotidiano, a cui affidare una testimonianza di presenza possibile solo nello sforzo di ascoltare un territorio artistico sfaldato. 

Daria Deflorian ha spiegato che anche il desiderio animatore di Radio India, fondata con la chiusura dei teatri, consisteva non tanto nella preparazione di un singolo programma, ma nell’ascolto reciproco, nel dialogo critico all’interno della redazione e nella ricucitura di una comunità teatrale (altro tema messo sul tappeto da Raciti). In questo senso, la ri-presentazione dello spettro implica un processo di riconoscimento: una traccia è tale solo se viene riconosciuta e riportata a un significato possibile, altrimenti resta un segno lasciato nello spazio, in attesa di decrittazione. 

Nel lavoro di Campsirago Residenza, invece, la distanza non è intesa come qualcosa da coprire, ma da performare. Le “Favole al telefono” prevedevano una reciprocità tra l’attore che leggeva una favola – al telefono, appunto – e il bambino o la bambina che, una volta ascoltata, avrebbe dovuto scriverne una a sua volta e rimandarla indietro. Si assisteva alla formazione di piccole comunità circolari sempre più numerose, a cui corrispondeva l’allargamento del numero di attori deputati alla lettura, i quali venivano pagati attraverso un’offerta libera data dagli spettatori e dal denaro proveniente dal FUS: un’azione poetica che è diventata anche un’azione politica, come affermano Michele Losi e Anna Fascellini di Campsirago Residenza. 

Il terzo e ultimo tema proposto da Raciti riguarda la formazione di un archivio. Se, come abbiamo supposto, lo spettro è una traccia, dovremo seguire Jacques Derrida per collegarlo al concetto di archivio: 

La traccia […] è qualcosa che parte da un’origine, ma che subito si separa dall’origine e che resta come traccia nella misura in cui si è separata dal tracciamento […]. È lì che vi è traccia e vi è inizio di archivio. Non ogni traccia è un archivio, ma non vi è archivio senza traccia. (Jacques Derrida, ​Pensare al non vedere. Scritti sulle arti del visibile (1979-2004)​) 

Se il lavoro di Frosini/Timpano designa l’archivio come prodotto di una selezione discrezionale degli artisti all’interno dello sterminato panorama del teatro italiano contemporaneo, e se l’operazione di Campsirago lo mostra come prodotto relazionale, come accordo tra artista e spettatore – nella veste di produttore di contenuti –, è nella struttura a podcast di Radio India che viene messa effettivamente in crisi l’idea di archivio e, soprattutto, di archivio come luogo di produzione del senso. 

Come ha ricordato Sacchettini, la primavera italiana dell’audio, iniziata ormai due anni fa, è definitivamente scoppiata con l’arrivo della pandemia: questo ha significato sia una maggiore maturità autoriale e tecnica dei contenuti caricati sulle piattaforme web, sia una pervasiva diffusione di un modo di ascolto parzialmente sconosciuto fino a poco tempo fa, almeno in Italia, sia la costante formazione di archivi audio. La forma del podcast, come ha suggerito Francesca Corona del Teatro India, ha però in sé la possibilità di “tradire” il palinsesto, di disfare la rigida tassonomia dell’archivio, per costruire piani di percorrenza inediti rispetto a ogni precedente scelta redazionale, in quella che si potrebbe definire “democrazia dell’ascolto”. L’ascoltatore ha infatti il potere di attraversare il podcast a suo piacimento e di interrogare la traccia spettrale che di volta in volta ne fuoriesce, intendendo la sua ri-presentazione su un livello non tanto di riproduzione o di ripetitività, quanto di intensità o di “aumento” e apertura del senso: lo spettro, come l’attore del resto, è una presenza che non rimanda a se stessa, non coincide con i propri limiti, ma rinvia a qualcosa di assente e di infinitamente interpretabile. 

TAVOLO 3. Danza e immagine – ovvero metonimie e metafore magiche ​| Sabato 5 dicembre 2020 18.00 

di Massimo Milella 

Moderatrice​: Laura Gemini Ospite:​ Roberta Nicolai Segnalati dalla Rete​: M.A.D – Balletto Civile Paola Bianchi Teatrino Giullare 

Della parola “​magia​” si sa che i greci, sin dal IV secolo a.C. – forse per diffidenza rispetto a ciò che arrivava dall’est, come ad attestarne un vigile confinamento sociale e linguistico – la conservarono sonoramente intatta rispetto all’originale persiana. Il suono, infatti, per quei contemporanei doveva evocare dottrine zoroastriane, credenze “barbare” rispetto al totalitarismo del razionale in voga nelle cerchie aristoteliche, e in particolare quelle pratiche oscure di lettura di cieli stellati e interpretazione di sogni: di fatto, la “magia” possiede nei suoi geni la natura di traduzione in termini più razionali di linguaggi immateriali, dal divino all’umano, dall’astratto al concreto. 

Magico dunque non è ciò che resta sospeso in una realtà inesistente, anzi al contrario è uno strumento per dotare la realtà, altrimenti inconoscibile, di una possibile chiave di manifestazione, alla nostra sensibile portata. 

“Non devi fare altro che camminare dritto verso il muro fra i binari 9 e 10. Meglio se vai di corsa se sei nervoso.” (dal film ​Harry Potter e la pietra filosofale, ​Chris Columbus, 2010) 

Nel primo film della saga di Harry Potter, la scena dell’attraversamento del binario 9 e 3⁄4 è particolarmente significativa. Prima, l’inquadratura è una soggettiva che rivela agli occhi del protagonista e nostri la colonna anonima che divide la ​platform 9 dalla 10, ovvero il muro insuperabile, la realtà indiscutibile – e indiscussa, al punto da venire ignorata dai viaggiatori circostanti; poi, la macchina da presa si concentra su Harry che si fa coraggio e si lancia, correndo, verso il muro. Ora, una scelta plausibile da parte della macchina da presa sarebbe quella di mostrarci il muro in avvicinamento, fino all’impatto atteso, che sappiamo, non potrà esserci: insomma una soggettiva, ragionevole. Invece, la finezza sta nel seguire Harry quasi frontalmente (e quasi di 3⁄4​, in realtà), dando allo spettatore l’impressione di correre all’impazzata all’indietro. Il contatto con il muro è rappresentato da un cambio di luci, un buio che poi restituisce uno scenario illuminato diversamente, e ci ritroviamo tutti, all’improvviso – straniti davvero dall’attraversamento magico, e non storditi dalla finzione del cinema – dall’altra parte. 

La descrizione di questa scena è fondamentale per cogliere la ricchezza del viatico magico del terzo tavolo di RC2020, dichiarato in partenza dall’ospite, Roberta Nicolai – che è certamente direttrice artistica di Teatri di Vetro​, ma andrebbe soprattutto raccontata come sacerdotessa laica (e “pop”) di pregevoli oscillazioni artistiche, incubatrice di profonde messe in discussione dei processi creativi, poetico e immaginifico riferimento di molta arte che ha attraversato le sue iniziative, tra le quali il festival di Teatri di Vetro non è che la più recente. 

E non poteva che essere lei l’unica, nella tre giorni dedicata al Premio Rete Critica, ad accettare la sfida dell’evocazione sottintesa nel titolo di questa edizione del Premio, 9 e 3⁄4, appunto: quella del binario che interrompe – magicamente, s’intende – la progressione tra il 9 e il 10, nella stazione di King’s Cross. 

“Una frazione sghemba, perché sghemba è la realtà e sghembandola produce la possibilità di creare un altro mondo.” (Roberta Nicolai sui 3⁄4 eccedenti che numerano l’edizione del Premio RC) 

Nicolai, nell’aprire il confronto, fa detonare il riferimento a Harry Potter, evocando distintamente la corsa del protagonista contro l’impossibile ostacolo, carico di tutto il proprio bagaglio, senza esitazioni. Una corsa che scaccia il nervosismo. E la nostra, di spettatori, invece, è una corsa all’indietro, nell’ambigua veste di chi, Euridice all’incontrario, affidandosi totalmente all’attraversatore di muri, lo precede. 

Non possono quindi che essere due i termini di riferimento di questo viaggio proposto nell’arcipelago costituito dai progetti di Paola Bianchi, Teatrino Giullare e Balletto Civile: corpo e sconfinamento. Eccoli, magicamente, che compaiono: danza e immagine. 

“Si è scatenato l’uragano fuori.” (Enrico Deotti e Giulia Dall’Ongaro, mentre fuori dalla loro finestra il tempo era da cani) 

Enrico Deotti e Giulia Dall’Ongaro di Teatrino Giullare sono nel bel mezzo di una tempesta e, benché all’asciutto nel loro appartamento, la nave della loro connessione non può fare miracoli. Il dibattito innescato con loro dalla sociologa Laura Gemini è funestato da crolli improvvisi, silenzi beckettiani, attese di un rientro all’obbligo della diretta, assenza. Ciò che accade è, di fatto, un boicottaggio per cause naturali che rompe il ritmo della narrazione: il ​Diario dei giorni felici documentava, mutando i riferimenti, un fatto analogo nei primi giorni, nient’affatto lontani, in cui tutti sperimentavano il significato della parola pandemia. 

“Il corpo dell’eccezionalmente piccolo” di Teatrino Giullare, come lo ha definito Nicolai, è, nel caso di questo progetto molto elogiato da pubblico e critica, il risultato di un deragliamento, che ha costruito una trincea di feroce e autentica quotidianità tra le parole frantumate, più che estratte, dal dramma beckettiano ​Giorni felici​: stavano lavorando su quel testo, poi è scoppiato l’uragano ed è avvenuto lo sconfinamento. Il lavoro, eseguito tramite microframmenti in stop-motion, articolato con pochi oggetti drammaturgici, tratti dalla realtà domestica dei due artisti e innescato su due pupazzi, è stato poi pubblicato su Instagram, con testa leggera, disinvolta e consapevole. 

L’antropologo Levi Strauss, nei suoi rari interventi dedicati al pensiero magico, notò due principali operazioni al riguardo, nelle società a cui dedicò le sue osservazioni: una magica-metaforica e una metonimica. Per giocare con i riferimenti, quella di Teatrino Giullare sarebbe una magia-metafora. 

Per accedere alle isole di Paola Bianchi e di Balletto Civile – lontanissime tra loro benché soggette alle stesse condizioni atmosferiche – Nicolai ci offre un ponte, definendo “corpo che crea spazi” quello di Balletto Civile e “corpo testimone” quello di Bianchi: due concezioni diverse della danza, della coreografia, della ricerca. E, tornando a Levi Strauss, due magie-metonimie. 

“Era una testimonianza non solo di quello che eravamo, un villaggio distante ma vicino, ma anche del rapporto con il proprio corpo, con la propria arte (un incantesimo, un servire, un liberarsi), parlare anche al teatro.” (Michela Lucenti su ​M.A.D.​) 

M.A.D. – Museo Antropologico del Danzatore è esposizione di singoli corpi danzanti in spazi protetti, ovvero “casette”, come le hanno definite Lucenti e Camilli durante l’incontro, costruite ad hoc per la fruizione di un pubblico itinerante, curioso e distanziato. Un’esperienza che ricerca la più ampia accessibilità, quasi in un’ottica di scambio, proponendo un decentramento non della visione, dato che lo sguardo dello spettatore è sempre diretto verso la casetta, bensì della fruizione, perché, come spiega ancora Lucenti, “il pubblico poteva girare come voleva e fare tutto, tutto quello che non si poteva fare, poteva toccare la casetta, farci fotografie”: un dire che allude, forse involontariamente, forse consapevolmente, alla necessità di una nuova regolamentazione della proposta artistica, almeno da parte di questa dinamica compagnia, che in dialettica tra un “prima” e un “dopo” si concentra non tanto su quello che può fare il performer, bensì su ciò che potrà fare il pubblico. E non è un deragliamento da poco. 

Di fatto, ​M.A.D. è un atto di resistenza ma, contemporaneamente, una messa in discussione della propria essenza teatrale, che da un lato ricrea la quarta parete e dall’altro ne sente, drammaticamente, il limite. 

“[…]​ l’estrema somiglianza delle varie posture racchiude in sé un’interessante aderenza oggettiva nel passaggio tra le esperienze dei corpi, un metodo che, eludendo il “corpo del maestro” come modello da imitare, paradossalmente ne acuisce il legame aprendo le porte al “senso” del movimento stesso.​” (dal blog di Paola Bianchi, a proposito di ​Archivi di posture)​ 

Manipolare gli spazi, crearli, non è invece prioritaria esigenza nel territorio artistico di Paola Bianchi, approdata a ​ELP​ attraverso un percorso personale stratificato, onesto, che pare basarsi su un concetto al tempo stesso metodologico, formale e pratico: la sottrazione della coreografia. Il racconto che Paola Bianchi fa del proprio lavoro si intreccia ipnoticamente con l’immagine di lei, seduta su una poltroncina in una platea, a figura intera, evitando così ogni cesura forzata dall’inquadratura della conversazione virtuale. Bianchi tenta di sintetizzare l’ipertrofica costellazione di ​ELP​ a partire dallo svelamento dell’acrostico nelle parole magiche ​Ethos​ ​Logos Pathos:​ la prima incarna il modo di essere degli interpreti, la seconda riferisce della necessità di raccogliere e restituire la prima, la terza è “la parte fondamentale del lavoro scenico”. C’è in queste parole la generosa descrizione di più di un anno di lavoro, di moduli componibili e atti performativi di varia durata, poi sfociati in quello che è stato davvero il cuore di ciò che Rete Critica ha voluto premiare, ​Archivi di posture​. 

Archivi di posture​ è definito, sul blog dell’artista, come un “dispositivo digitale nato in emergenza”​: suona come un meccanismo simile a un segnale d’allarme, l’attivazione automatica di un’intelligenza artificiale a scopi di salvataggio, di assistenza, di protezione. Così l’esigenza, già ampiamente prevista in ​ELP​, di “eludere il corpo del maestro come modello da imitare”, diventa immediata: sono le posture di 150 professionisti della danza a riempire di corpo e concretezza le descrizioni verbali di Bianchi, trasmesse solo via audio e inviate una ogni tre giorni. 

Colpisce di Bianchi la piena capacità di raccontare ciò che fa, attraverso gli interventi come quello ascoltato durante RC2020, ma anche negli scritti che corredano e accompagnano i suoi lavori. Puntuali, cristallini, rispettosi di una lettura nitida e trasparente, offrono la cifra più eloquente della sua presenza/assenza, che sempre evoca la forza più singolare del suo “corpo testimone”: la restituzione della comunità a cui appartiene, attraverso un archivio di posture ma soprattutto attraverso l’accettazione della sua complessità. 

Mentre Gemini tenta generosamente di far dialogare le istanze di Balletto Civile e Paola Bianchi, in sana e robusta dialettica tra loro, si fa largo l’impressione di un tavolo davvero diverso dai due che lo hanno preceduto, forse per l’eterogenea tessitura delle tre poetiche, forse per l’inafferrabile natura dello sconfinamento dal corpo all’immagine. Forse, per l’uragano che ha avuto la meglio sugli uomini e non sui loro tentativi. 

Levi Strauss ci dice che per l’antica popolazione dei Nambikwara lo sciamano è anche chiamato “ndàre​”, ovvero “tuono”. Tuono perché incarna il rapporto tra la sua comunità e questo terribile fenomeno acustico figlio di una scarica elettrica nel cielo; perché legge il cielo, e lo racconta a chi sta sulla terra. Perché attraversa di corsa il muro di un binario che non esiste e noi, di spalle, ci fidiamo. 

E, con un cambio di luci, siamo dall’altra parte anche noi.